L’occupazione di un fondo sine titulo da parte della pubblica amministrazione e conseguente trasformazione da parte della stessa di un bene privato, integrando un illecito permanente, non è utile ai fini dell’usucapione atteso che diversamente si rischierebbe di reintrodurre nell’ordinamento interno forme di espropriazione indiretta o larvata, tenendo anche presente che l’apprensione materiale del bene da parte della p.a., al di fuori di una legittima procedura espropriativa o di un procedimento sanante, non può essere qualificata idonea ad integrare il requisito del possesso utile ai fini de quibus. Solo dalla data di entrata in vigore del testo unico dell’espropriazione (30 giugno 2003) è configurabile – in presenza di tutti i relativi presupposti – il possesso ad usucapionem di un terreno occupato sine titulo, perché solo l’art. 43 (e poi l’art. 42 bis) del medesimo t.u. 8 giugno 2001, n. 327, ha imposto l’eliminazione della prassi della ‘occupazione acquisitiva’, e dunque solo da questo momento l’ordinamento ha individuato, ex art. 2935 c.c., il “giorno in cui il diritto può essere fatto valere”. L’amministrazione è titolare di una funzione, a carattere doveroso nell’an, consistente nella scelta tra la restituzione del bene previa rimessione in pristino e acquisizione ai sensi dell’articolo 42-bis; non quindi una mera facoltà di scelta (o di non scegliere) tra opzioni possibili, ma doveroso esercizio di un potere che potrà avere come esito o la restituzione al privato o l’acquisizione alla mano pubblica del bene. Alternative entrambe finalizzate a porre fine allo stato di illegalità in cui versa la situazione presupposta dalla norma.
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 6 novembre 2020, n. 6833.