In caso di un abuso edilizio, il legame parentale con il committente dei lavori non può determinare la responsabilità del proprietario dell’immobile che non abbia partecipato attivamente all’opera abusiva.
Lo ha precisato la terza sezione penale della Corte di Cassazione che, con la sentenza 27199/22, depositata il 14 luglio 2022, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un soggetto, condannato per il rimaneggiamento non autorizzato di una costruzione abitativa, perpetrato invece con molta probabilità da un parente. Infatti il proprietario “estraneo”, ossia privo delle qualifiche di committente, titolare del permesso di costruire o direttore dei lavori, può essere reputato responsabile di reato edilizio «purché risulti un suo contributo soggettivo all’altrui abusiva edificazione». Di conseguenza, qualora non abbia la disponibilità dell’immobile, non può essere ritenuto colpevole solo in base al legame di sangue o al vincolo di convivenza che intrattiene con chi si è occupato di soprintendere ai lavori. Occorrono, infatti, «ulteriori elementi sintomatici della sua partecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, come la presentazione della domanda di condono edilizio, la presenza sul posto, lo svolgimento di un’attività di vigilanza o l’interesse alla realizzazione dell’opera».